Vetralla vanta una lunga tradizione di lavorazione della ceramica, ricordata tra le più note attività artigianali del viterbese almeno dal 1500, il cui
repertorio, sebbene con marcate e ben specifiche peculiarità, trova le sue origini negli stilemi della ceramica medievale dell’Italia centrale (Lazio, Umbria, Toscana).
Fino agli anni ’60 del XX secolo, la produzione artigianale di stoviglie e vasellame ornamentale ha rappresentato una delle attività economiche principali del territorio: le ceramiche ornamentali e le stoviglie da tavola e da cucina, diffusissime e arcinote per la qualità dell’argilla e la resistenza alla fiamma, erano vendute in tutti i mercati della Tuscia e anche a Roma ne è attestata la circolazione fin dal XVI secolo, grazie al rinvenimento di materiali ceramici di produzione vetrallese in molteplici “butti” e scavi archeologici stratigrafici corrispondenti al periodo.
Gli artigiani, numerosi fino alla metà del ‘900, realizzavano le proprie opere al tornio manuale nella bottega, spesso adiacente alla fornace adibita alla cottura dei pezzi. Materiale d’elezione dei ceramisti vetrallesi era l’ottima argilla estratta dai giacimenti del Monte Pinese (o Panese), attiguo a Vetralla, località che, per questo motivo, è ancora oggi nota come “Pian delle Crete”. Peculiare delle fornaci vetrallesi conservatesi è lo sfruttamento delle proprietà refrattarie del tufo, pietra onnipresente nel territorio vulcanico della Tuscia, per realizzare i vani adibiti alla cottura delle ceramiche. Tali forni, scavati nel massiccio di tufo su cui sorge il Centro storico e per questo detti anche “grotte”, raggiungevano spesso dimensioni imponenti e venivano ulteriormente ampliati qualora la domanda di prodotti ceramici lo richiedesse, utilizzando come combustibile per la cottura la legna dei lussureggianti boschi attorno alla città.
Tra le famiglie di ceramisti (“pignattari” o “pilari” in dialetto vetrallese) attivi a Vetralla a partire dal XIX secolo, spiccano i Pistella, titolari delle prime fornaci in grotta ricavate , lungo l’attuale Via dei Pilari, ma anche i Paolocci e, sul finire dell’età d’oro delle ceramiche vetrallesi, i Ricci. L’uso dei soprannomi permetteva di distinguere tra i componenti di rami diversi della stessa famiglia o tra famiglie diverse in casi di omonimia. Tra i soli Pistella, ad esempio, si ha notizia di uno “scimmia”, un “leccalume”, un “la sorca”, tutti personaggi anagraficamente rispondenti al nome di Giovanni Pistella.
La produzione più nota e tipica di Vetralla è la cosiddetta “ceramica rossa”. Questa si otteneva tramite un doppio processo di cottura: nella prima fase il prodotto, modellato nella forma e lasciato essiccare, veniva poi cotto gradualmente nella fornace; nella fase successiva il manufatto veniva ricoperto di vetrina piombifera, alla quale a volte si aggiungeva il colore bruno per ottenere un effetto scuro o “a macchie”, e decorato con i colori prevalenti del giallo e verde, tonalità comuni già nel medioevo; si procedeva quindi alla seconda cottura che avveniva ad una temperatura più elevata. I motivi decorativi, per lo più floreali, erano spesso eseguiti dalle donne, e caratterizzavano, identificandola, la produzione delle diverse botteghe: le famiglie dei Ricci e dei Gambellini prediligevano l’iconografia del ramo di ulivo, i Paolocci discendenti da Vincenzo avevano eletto a proprio marchio le rose, mentre i Paolocci di Antonio si ispiravano, oltre che all’ulivo, alle margherite e al quadrifoglio.